Abilify
Può esistere una musica nel dolore? Ci può essere una sinfonia nella sofferenza? Il disagio mentale può trovare una sua armonia? Credo che la ricerca visiva di Irene Angelino, attraverso una cruda esplorazione del proprio corpo, provi a verificare queste possibilità. Guardare il disagio senza alcun filtro, cercando però di evidenziarne la dimensione umana può essere un’esperienza esaltante ed utile per tutti noi. Il trattamento sanitario obbligatorio vissuto nel 2014 e le violenze sessuali sono state esperienze drammatiche che hanno segnato la sua vita. Irene, però, ha reagito con forza e determinazione, quella che poteva essere uno sprofondare nell’abisso è diventato una ricerca di luce.
Il suo primo libro fotografico dal titolo E lucevan le stelle indagava i luoghi del disagio come le case-famiglia. Irene dichiara: “La ricerca delle immagini è stata animata dal desiderio di avvicinare alla sofferenza mentale quanti ne sono spaventati, mostrandone l’aspetto, i silenzi, gli spazi a volte vuoti, le assenze, l’umanità del dolore, con un bene che superi la distanza”.
La ricerca visiva Abilify, realizzata tra il 2020 ed il 2025, è un tentativo di autoanalisi attraverso la fotografia, cercando di evidenziare le tracce delle ferite. Gli scatti sono stati realizzati impugnando la fotocamera alla distanza massima dell’apertura delle braccia. Il Bianco e Nero attrae la nostra retina con frammenti enigmatici, i dittici ed i polittici svelano per porre nuove domande. Il corpo di Irene diviene un pentagramma dove la vita ha segnato i momenti più drammatici.
La superficie, ancora una volta, rivela la sua capacità di essere espressione di tensioni profonde. Le impronte di luce registrano queste tracce, questi segni che nella loro brutalità sottolineano la forza dell’umano, il desiderio di vita e di felicità. La sua è anche una denuncia delle ingiustizie subite, ma senza rabbia, senza rancore, vi è solo una richiesta di memoria.
L’autoritratto è pratica diffusa nella storia della fotografia, ricordo solo Francesca Woodman, Cindy Sherman e Arno Rafael Minkkinen. Ognuno di loro ha messo in scena la propria vita interiore per interrogare, per interrogarsi. Le immagini di Irene, con una loro originalità, si inseriscono in questa tradizione e costruiscono un silenzio dove poter mostrare il dolore, ma un dolore che cerca speranza e salvezza.
La sofferenza spesso conduce alla solitudine ed all’autocommiserazione, diventa un corto circuito da cui non si riesce più a fuggire. Oltre al disagio personale, spesso bisogna affrontare anche l’allontanamento di chi ti circonda, che rende ancora più difficile il superare queste difficoltà. Allora forse, la migliore, ma non la più semplice delle soluzioni, è quella di raccontare a tutti la verità, evitando di occultare le esperienze negative, per salvare vuote apparenze.
Il viaggio di Irene deve essere anche il nostro viaggio, ognuno di noi ha delle ferite che nasconde e che lo condiziona. Dobbiamo essere tutti solidali con Irene e lasciamo che urli: Io ci sono, io sono forte, io sono viva.
di Luca Sorbo


