Burkinabé, siamo tutti persone
Il fotografo - capace di un sentire profondo - avvicinandosi a tematiche sociali, è consapevole che un progetto nasce prima di tutto dall’incontro autentico e dall’ascolto empatico. Una fotografia fatta di relazioni, dove lo scatto è parte del processo e mediatore nella condivisione dell’esperienza. Il fotografo non è solo testimone, colui che documenta la realtà, non è un osservatore neutro, ma un costruttore che offre voce ai più deboli. L’immagine diventa gesto di restituzione, testimonianza d’impegno civile, etico e politico richiamando alla responsabilità sia chi sta dietro l’obiettivo sia chi osserva ed il cui vedere diventa atto di partecipazione. Questo è l’atteggiamento, questo lo scopo di Cristina Corsi e Antonio Lorenzini nel raccontare la vita di un gruppo di ragazzi che hanno lasciato il loro paese per affrontare un viaggio lungo e faticoso alla ricerca del futuro altrove. Altrove che è luogo di speranza ed al contempo incognita. Nelle 21 fotografie che compongono il Portfolio le inquadrature e le scelte compositive imprimono forza al messaggio. In molti dei ritratti i tagli audaci, l’uso dello sfuocato, le ombre o le riprese di spalle escludono il volto, lo nascondono: frammenti di un anonimato in cui si concentra il tema dell’identità, introducendo la poetica dell’assenza, dove sottrarre significa negare. Una mancanza che condensa la tensione tra solitudine e appartenenza, tra individuo e società. “Stranieri” che nell’essere altro da noi dovrebbero essere hostis1, meritevoli di reciprocità e ospitalità secondo l’origine greca del termine. Un racconto che restituisce da un lato l’intensità del legame tra ragazzi accomunati dallo stesso destino e dalla medesima cultura e dall’altro svela la solitudine e l’isolamento a cui sono costretti. Nei volti celati, nei corpi in cammino e gli sguardi verso l’orizzonte, nella tavola imbandita, nelle mani che stringono un telefono - quale protesi affettiva, unica connessione con la famiglia e le radici - si manifesta la forza, quella che resiste, dignitosa e silenziosa. La scelta del bianco e nero, con la gamma tonale completa, restituisce il reale in tutte le sue sfumature enfatizzando la capacità delle fotografie di comunicare stati d’animo e necessità. Il mare che apre e chiude questa narrazione simboleggia il viaggio, la lontananza, l’approdo e la connessione con la terra d’origine. Un elemento, come un filo, che tiene insieme memoria, mancanza e ricerca di una nuova casa che non è solo spazio fisico ma dimensione di desiderio e inclusione. Le fotografie non cambiano il mondo, ma possono accendere le coscienze. Comprenderle significa non potersi più sottrarre alle responsabilità. In un tempo che misura il bene in termini di profitto e promuove le paure più dei bisogni, l’immagine diventa custode e scenario di resilienza dove la realtà si trasforma in esperienza condivisa. Il fotografo è chiamato a restituire visibilità agli invisibili. Nella dialettica tra empatia e distanza, la fotografia ci ricorda che ogni storia è parte della nostra storia di esseri umani.
di Monica Mazzolini


